Corso Bramard è stato il commissario più giovane d’Italia. Meditabondo, insondabile, introverso eppure capace di intuizioni prossime alla chiaroveggenza. Fino a quando un serial killer di cui seguiva le tracce ha rapito e ucciso la moglie Michelle e la piccola Martina. Da allora sono passati vent’anni. Corso vive in una vecchia casa dimessa tra le colline, insegna in una scuola superiore di provincia e passa gran parte del tempo arrampicando da solo in montagna, spesso di notte e senza sicurezze, nell’evidente speranza di ammazzarsi. Perché, come suole ripetere, “non c’è nessuna vita adesso”. Eppure qualcosa è rimasto vivo in lui: l’ossessione, coltivata con quieta fermezza, di trovare il suo nemico. Il killer che ha piegato la sua esistenza e che continua a inviargli i versi di una canzone di Leonard Cohen. Diciassette lettere in vent’anni, scritte a macchina con una Olivetti del ’72. Un invito? Una sfida? Ora quell’avversario che non ha mai commesso errori, sembra essere incappato in una distrazione. Un indizio fondamentale. Quanto basta a Corso Bramard per riprendere la caccia, illuminando una scena popolata da personaggi ambigui e potenti, un dedalo di silenzi che conducono là dove Corso ha sempre cercato il suo appuntamento, e il suo destino.
Una rabbia semplice
Arcadipane dove gli altri crollano ha sempre trovato «terra di conquista», ma ora si sente stanco; la sua intelligenza, tanto umile quanto ostinata, pare essersi assopita. A destarlo dal torpore è un episodio di violenza come ce ne sono molti. Dietro cui, però, si nasconde un male così insensato da spegnere le parole in bocca.